I disastri che Venezia si è trovata a fronteggiare nel 2019, dagli incidenti navali alla inondazione di novembre - rispettivamente espressioni del turismo “estrattivo” delle Grandi navi e del cambio climatico in laguna - hanno creato un’emergenza che non sembra incidere sulla strategia del governo urbano, che ha fatto dello sfruttamento turistico ad oltranza e della irrisione del cambio climatico la sua cifra distintiva.
Il realismo del breve periodo prevale in una comunità bicefala che vive gli eventi in modo diverso dentro una narrazione della emergenza occupazionale in nome della quale ciò che conta è sempre l’impresa e mai il cittadino.
Che poi la debolezza della monocultura turistica si ripercuota nel repentino svuotamento turistico di Venezia a seguito della inondazione non produce alcuna riflessione sui rischi dell’economia a senso unico. Ad eccezione di ”miglioriamo la comunicazione”, come se l’Acqua granda non abbia già provveduto a farlo.
A mesi la città è chiamata alle urne per il rinnovo amministrativo e ha idealmente di fronte a sé due modelli: cullarsi nell’industria turistica onnivora o espandere la capacità di dialogo con l’innovazione nel mondo. Non una contrapposizione frontale ma un cambio di indirizzo.
Di qui l’alternativa elettorale. Il blocco conservatore organizzato nella continuità del quotidiano e un blocco progressista che ai delusi prospetta un diverso rapporto tra economia e cittadinanza. Una cultura del progetto contro un programma in pieno svolgimento.
Per convogliare legittime esigenze dentro un progetto condiviso serve un’idea guida e qualcuno che alla fine la interpreti. Un salto di qualità con cui la politica deve ora misurarsi, scegliendo tra il metodo delle primarie e quello del candidato di sintesi.
Il tempo è arrivato. Tutto quello che serve è sul tavolo.
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