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Hanno ripetuto fino allo sfinimento che «non c'è alternativa». Mentivano. Un'alternativa c'è.

Le maniere con cui stiamo gestendo la ripartenza non fanno che renderci chiaro, ancora una volta, uno dei nostri limiti fondamentali, ossia che faremmo di tutto pur di non cambiare consuetudini.


Il tanto sventolato “ritorno alla normalità” è un inno al ripristino di quelle situazioni economiche colpevoli di aver causato e propagato il virus stesso. È ufficiale che ci sia una correlazione tra la nascita del coronavirus e gli allevamenti intensivi, e alcuni ricerche indicano la possibilità che il virus si propaghi anche attraverso l'inquinamento atmosferico e le polveri sottili – visto questi studi non sembra così fuori dagli schemi che le zone più colpite in Italia siano state Veneto e Lombardia.

Questo “ritorno alla normalità” cerca di nascondere che è proprio la tanto amata normalità ad essere il problema. C'è anche una grossa contraddizione, ossia che gli assembramenti sono sconsigliati ma non quando si tratta di assembramenti nei luoghi di lavoro, nelle fabbriche o all'interno dei rari mezzi pubblici presi da chi fa in questi luoghi di “assembramento legale”. È sconsigliato assembrarsi, a meno che non sia nel plateatico di un bar, a meno che l'assembramento non sia concepibile in un piano economico.

La situazione è delicata, l'economia è in crisi e la società in stallo. Cosa dobbiamo aspettarci dal futuro? Ma soprattutto, perché questa parola, futuro , sembra significare nient'altro che “riproporre senza modifiche quello che esiste nel presente”? Perché si vuole reinstaurare il presente?


Penso sia veramente importante porsi altre domande, al di là delle classiche “cosa c'è che non va nel presente?” e “cosa possiamo imparare dal passato?”. Per superare veramente questa crisi dobbiamo chiederci una cosa in particolare: che futuro vogliamo? Uno in cui la globalizzazione sia gestita in maniera meno pericolosa? In cui gli animali e la flora vengano rispettati e trattati dignitosamente? Uno in cui il “lavoro invisibile” venga retribuito e le ricchezze ridistribuite in favore di un reddito base universale? In cui lavoreremo meno ma lavoreremo tutti? In cui il pianeta non sia dato per scontato? Uno in cui i vaporetti saranno sostituiti da hovercraft, in cui il turismo non sarà invasivo, in cui la democrazia sarà una questione seriamente popolare e non una delegazione senza fine di stampo burocratico? Vogliamo una smart city ultratecnologica che si autogestisce? Vogliamo una città verde dove l'urbano e il naturale siano in simbiosi? Insomma: cosa pretendiamo in quanto cittadini, non solo delle nostre città ma del mondo?


Abbiamo perso la capacità di immaginare un'alternativa coerente a questo mondo che sta andando a rotoli. Non serve essere dei radicali per essere d'accordo su questo punto. Abbiamo legato indissolubilmente al futuro il concetto di accumulo, ma non è attraverso l'accumulazione che si progredisce. Il futuro non può essere solo inteso come avanzamento temporale. Va inteso come avanzamento ideologico, tecnologico, economico e sociale. Andare verso il futuro non significa aumentare: significa evolversi.

Le vecchie utopie hanno forgiato il passato. Inventare nuove utopie trasformerebbe il presente e schiuderebbe il futuro a nuove possibilità – e queste sono necessarie in un epoca che ha relegato la fantasia fuori dalla politica, come se non fossero le idee la base dell'intervento sulla realtà.

Hanno ripetuto fino allo sfinimento che «non c'è alternativa». Mentivano. Un'alternativa c'è. Il futuro ci sarà. Il nostro compito è inventarli.


Moreno Hebling per #TuttalaCittàinsieme!


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