Leggendo in parallelo le cronache turistiche di Jesolo e quelle di Venezia si percepisce una totale sintonia di toni entusiastici per il pienone turistico che, tra gli ultimi scampoli d’estate e la festa pagana di Halloween ormai confusa e sovrapposta con quella cristiana dei Morti in nome di un consumismo che ha fame di eventi, non distingue tra un centro balneare e una città d’arte celebrata nel mondo. Quello che conta è la saturazione della offerta di qualsivoglia esercizio di ristorazione o ricettività, mentre la congestione urbana fino alla paralisi circolatoria è la precondizione necessaria del servizio reso al proliferare di offerta di questi servizi. Nella assimilazione Venezia - Jesolo non c’è solo l’aspetto commerciale contingente di una congiuntura favorevole, quanto piuttosto la celebrazione stessa di un destino comune che affiora come evoluzione inesorabile di un intero territorio determinante per il primato veneto del turismo in Italia. Il brand Venezia è ormai il veicolo indifferentemente utilizzato per celebrare un'intera regione, le montagne dolomitiche, le Olimpiadi invernali, la festa dei Morti e quant’altro. Il corollario a sostegno di tutto ciò? Ma porta occupazione! E questo è il punto. Di quale occupazione stiamo parlando? Il traino occupazionale di questo turismo è fatto di lavori subalterni sottopagati per molti dei quali non è neppure richiesta una qualifica. Prolifica invece il lavoro nero e una vasta area di economia sommersa in cui operano figure di ogni tipo che lucrano al riparo di una tolleranza con tratti di connivenza che favorisce la formazione di capitali destinati a ripresentarsi sotto forma di rendite permanenti a danno della città. L’occupazione turistica di cui si parla non è certo quella dei laureati cui non viene offerta nessuna opportunità di lavoro, simile almeno alle altre città venete. C’è proprio ragione di festeggiare per questo primato?
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