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Plateatici: un dibattito molto sentito in città, e in realtà mai chiuso.

Parlare di allargamento dei plateatici significa riaprire un dibattito molto sentito in città, e in realtà mai chiuso, ma solo temporaneamente sospeso dalle emergenze, acqua alta prima e coronavirus poi.


Fino a qualche mese fa, si trattava di un problema, in particolare nella città insulare, dove negli ultimi anni l’occupazione di suolo pubblico con tavolini è cresciuta sotto gli occhi degli abitanti al punto da intasare fondamenta e campi, e senza una chiara mappa di ciò che fosse autorizzato o meno.

Ora la questione si pone in termini diversi, e coinvolge ogni angolo del territorio comunale. Per i pubblici esercizi, avere o allargare lo spazio di erogazione all’aperto può fare la differenza nel riuscire a mantenere aperta e remunerativa l’attività, assicurando nel contempo il rispetto delle norme di distanziamento.

Perché non fare allora di questa istanza una proposta che non sia soltanto commerciale, ma anche (e prima di tutto, direi) culturale e sociale? C’è un gran ripetersi di “se non si coglie questa occasione per ripartire su basi diverse”, “la crisi dovrebbe portare al cambiamento”, ma qual è l’utilità di questi assunti, se rimangono soltanto tali?

Il plateatico è occupazione di spazio pubblico. Bene, allora chiediamoci: come vorremmo lo spazio pubblico? Come lo vorrebbero i cittadini? Come lo vorrebbero i giovani, ma anche chi fa arte, per esempio? Pensiamo allora a forme reversibili, elastiche, adattabili alle situazioni, ai momenti dell’anno, a target diversi per età e interessi, senza dimenticare nessuno. Ripeto: nessuno. A forme di collaborazione tra pubblici esercizi e associazioni, gruppi di cittadini, artisti, scrittori, anche con privati che hanno spazi interessanti da mettere a disposizione (penso all’esempio di realtà che già operano in questa direzione, come Zagabria durante i mesi estivi, con le iniziative nei cortili).


E poniamo al centro, insieme, l’inclusione e l’accessibilità, in termini fisici, economici, sociali.

Pensiamo ad un uso dello spazio, pubblico innanzitutto (ma con possibili incursioni anche nel privato) che produca economia, cultura ed inclusione. Altrimenti ci troveremo soltanto con qualche tavolino e qualche consumazione in più, ma non avremo imparato niente.


Elisabetta Tiveron

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