Così il Comune si sbilancia a favore dei bar e Venezia si consacra a città-plateatico
Se c’è un effetto duraturo che la pandemia da Covid-19 ha lasciato su Venezia, è la sua trasformazione definitiva in “città-plateatico”.
La revisione dei pianini tarda ad arrivare, la Giunta si prende tempo fino a fine anno, e intanto non c’è alcun controllo, nessuna revisione: bar e basta. Consumo di alcoolici e basta. Questo è il messaggio più forte in assoluto che attrae turismo “locale”, ossia regionale o interregionale, con le conseguenze che tutti (i residenti) conoscono bene.
E allora slalom nelle calli, attraversamenti a rischio di rovesciare o inciampare contro i camerieri, plastica dei bicchieri per l’asporto praticamente ovunque. In barba al bilanciamento delle esigenze tra chi vive e chi lavora nei bar, in barba alla necessità di ridurre i rifiuti urbani, in barba all’obiettivo di disincentivare l’uso e l’abuso di alcool.
È avvilente che una città così ricca di cultura e dal patrimonio artistico, architettonico e ambientale tanto peculiare sia diventata un immenso bar.
È avvilente che noi, i contemporanei spinti dalla smania del guadagno a ogni costo, è il migliore risultato economico a cui riusciamo ad arrivare.
È avvilente che una Giunta favorisca tutto questo, interpretando in modo tutto suo il famoso “bilanciamento di interessi” tra chi vive e chi sfrutta la città per il proprio guadagno personale.
Il Covid ha fatto varcare la soglia, siamo al "liberi tutti": nessuna regola, nessun limite. Ma chi dà agli esercenti delle attività e ai decisori politici il diritto di appropriarsi della città che è patrimonio mondiale e di rivenderla? Nessuno dice di chiudere, nessuno dice che non si può svolgere il proprio lavoro. Si tratta di farlo in modo meno invasivo e onnivoro.
Su questo è ora e tempo che ragioniamo tutti.
Giovanni Andrea Martini
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