Quello che non serve è lo stillicidio di allarmi quotidiani sulla sopravvivenza del porto lagunare senza una visione di insieme che indichi una strategia di lungo termine.
I vincoli posti dalla laguna sono noti, così come sono noti gli effetti degli stravolgimenti indotti sul bacino centrale, e di conseguenza sulla città insulare, nel corso del ‘900.
Il porto è regolato da un Piano Regolatore del 1965, in vigore cioè da prima della grande alluvione del 1966. Un’epoca in cui navi, pescaggi, traffici erano legati ad un'economia che non c’è più.
È mai possibile che oggi non si sia ancora provveduto a elaborare una visione aggiornata del porto di Venezia ai tempi della globalizzazione matura e si proceda stiracchiando uno strumento obsoleto per adattarlo ai nuovi tempi?
Laguna e Mose, Venezia e porto, non possono essere materia da bricolage amministrativo giocato sullo scarica barile della burocrazia, fonte di tutti i mali, in realtà figlia di decisioni che spettano alla politica. Sia quando opera che quando rinvia.
Si abbia il coraggio di prospettare uno scenario adeguato in cui sia l'economia marittima che l'economia portuale, col business che necessariamente li governa, vengano messi sul tappeto di una sana discussione di una città che deve essere aggiornata con trasparenza sui rapporti tra l’economia industriale di una regione manifatturiera e l’organizzazione logistica di cui ha necessità.
Di certo esistono scelte spinose nelle relazioni porto-laguna cui non servono i dictat dei dittatori di banchina e tantomeno dei “dittatori idraulici”, eletti o non eletti.
Alla città serve trasparenza, non alternanza di sotterfugi e proclami per confondere l’opinione pubblica.
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