La notizia, per quanto circolasse già dal maggio scorso e sia stata confermata solo nei giorni scorsi, è stata clamorosa. La Fondazione di Venezia sta mettendo in vendita i suoi gioielli, dal Museo dei Tre Oci, a pochi metri di distanza da Piazza San Marco, al nuovo M9, il Museo del Novecento inaugurato in pompa magna solo un paio di anni fa e costato circa 130 milioni, di cui 35 solo di cantiere. Notizia clamorosa perché sul destino di quest’ultimo museo la Fondazione di Venezia, presieduta all’epoca da Giuliano Segre, aveva puntato molte delle sue carte per il rilancio di Mestre, la parte di città in terraferma di Venezia.
Che quel Museo non avrebbe mai funzionato lo abbiamo scritto su queste colonne il giorno dell’inaugurazione stessa. E le ragioni erano evidenti a tutti coloro che non volessero essere ciechi, o che, non beneficiando delle ingenti campagne pubblicitarie e di pubbliche relazioni messe in atto dalla Fondazione stessa, fossero liberi di esprimere un giudizio oggettivo. Per quel Museo non c’è mai stato né un piano serio e realistico di destinazione, di gestione e di utilizzo, né, ancor meno, un piano sulla destinazione commerciale degli spazi che lo circondano. Insomma, tante idee, assai confuse, rimpalli di responsabilità tra vecchie e nuove gestioni, una valanga di fumo mediatico. Il risultato è quello di milioni di euro sperperati. Un percorso che ha portato la Fondazione di Venezia ad imboccare lentamente e progressivamente la stessa strada percorsa da Fondazione Cassamarca. Quella cioè che porta al sostanziale fallimento.
Il “suicidio” compiuto da Fondazione Cassamarca resterà scolpito nella memoria grazie al libro di Massimo Malvestio, “Malagestio”, che narra le gesta dell’allora presidente Dino De Poli. Teatri costruiti e restaurati senza che ci fosse il minimo progetto di gestione e che ora sono chiusi e abbandonati a se stessi. Operazioni immobiliare come quella della “Cittadella” che ha svuotato il centro storico della città e contemporaneamente prodotto buchi di bilancio clamorosi. Missioni internazionali nate per promuovere le ambizioni del presidente stesso. E questo solo per citare tre tra i tanti fattori che hanno portato quella Fondazione – grazie al consenso politico e sociale “acquistato” da De Poli grazie a ricchi emolumenti e contributi – in sostanziale default.
Ma, anche a Verona, le spine che si trova a gestire l’attuale presidente della locale Fondazione, sono legate, oltre che alla voglia di giocare un ruolo di primo piano in Unicredit, alle “sciocchezze” compiute dal suo predecessore sul fronte immobiliare, errori che, fortunatamente, sono stati evitati invece a Padova sia in passato che in anni più recenti.
Ora Venezia si trova a fare i conti con la dura realtà di dover provare a vendere i suoi gioielli messi a carico in bilancio a valori forse non più attuali. Una situazione che, nei prossimi mesi, sembra destinata ad emergere dunque in maniera ancor più drammatica . Se infatti uno degli errori compiuti inizialmente, quando si è ragionato sull’M9, è stato quello di non aver messo in conto che i valori immobiliari, se ci fosse stata una crisi come poi è avvenuto nel 2008, sarebbero potuti crollare, la crisi del Covid, che rischia di essere ben peggiore di quella di 10 anni fa, rischia di rendere del tutto irrealistiche le stime sulle quali si basano oggi le valutazioni di vendita sia del Tre Oci che dell’M9.E allora saranno dolori.
Molto probabilmente, come avvenuto per il PalaExpo e per il Vega, altri grandi fallimenti recenti delle classi dirigenti lagunari, anche sulla crisi della Fondazione dovuta all’M9, calerà il silenzio. Ma questa non sarebbe una novità ma la conferma di quella ipocrisia tipicamente veneta che evita con accuratezza di riconoscere i propri fallimenti per poterli evitare la volta successiva. Condannandosi così a ripeterli e a rendere inarrestabile il declino di questa regione.
Filiberto Zovico - VeneziePost
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